Intervista di Silvia Anna Carli su The Legal Journal
[su_note note_color=”#A6ABB5″]Lunga chiacchierata con un manager ‘illuminato’, che parla sì di economia ma anche di equilibrio e di fiducia, in quello che si fa e negli altri. Da leggere e rifletterci su…[/su_note]
Niccolò Branca è un imprenditore. Provate a chiedere a qualcuno: “Sai chi è Niccolò Branca?” e state pur certi che nella maggior parte dei casi vi sentirete rispondere: “Quello del Fernet?”
Anch’io ho risposto così, più di un anno fa, quando un giorno un amico me l’ha chiesto e ha aggiunto: “Ha scritto un libro… parla di meditazione e di azienda, secondo me ti interessa”.
Niccolò Branca è sì “Quello del Fernet” e, volendo essere un po’ più formali, è Presidente ed Amministratore Delegato della Holding del Gruppo Branca International Spa, che comprende società attive in Italia, Argentina e USA nel settore del beverage e dell’immobiliare. Ma è anche un meditatore, dato che da oltre vent’anni la meditazione è il filo conduttore della sua ricerca personale.
E sì, ha scritto un libro, che si intitola Per fare un manager ci vuole un fiore, che coniuga e unisce questi due aspetti della sua vita. È proprio questo che mi ha interessato: non solo meditazione, ma meditazione all’interno di un contesto aziendale, quindi, in un ambiente che viene tradizionalmente associato a valori ben diversi quali la competitività, la razionalità, l’impegno a oltranza sino a scarnificare l’esistenza da altri valori.
Ho cercato di entrare in contatto con lui, che molto gentilmente si è prestato a fare quattro chiacchiere… e ho fatto fatica a non farle diventare quaranta tante erano le cose di cui avrei voluto parlare!
La prima (grossa) sorpresa è che Niccolò Branca non mostra alcuna demonizzazione della competitività ma la guarda con un punto di vista alternativo: “Non dimentichiamo mai, però, che anche se una sana competitività, l’impegno, la spinta a conseguire un risultato sono di per sé energie positive, ciò che conta sono le modalità con cui vengono messe in atto. Il rispetto degli altri deve sempre essere alla base di ogni nostra azione. E il risultato non deve essere mai legato solo al proprio tornaconto personale”.
Tocchiamo, nella nostra chiacchierata, alcuni dei punti trattati nel libro, che trovo particolarmente attinenti alla realtà lavorativa (ma estendibili a ogni aspetto della vita…) e quello che ne esce è un approfondimento interessantissimo, un vero dono per chi, come me, si interessa a queste tematiche.
Nel momento in cui ci si trova a dover affrontare una scelta, la prima cosa che ci sentiamo spesso dire è: sii razionale, valuta i pro e i contro: potrebbe spiegare perché questo approccio non è detto che sia quello corretto?
“La razionalità e un’attenta analisi dei pro e dei contro vanno benissimo, naturalmente. Ma bisogna anche porre attenzione al fatto che, a volte, ciò che crediamo sia una razionale visione dei pro e dei contro ci viene in realtà dettata dalle nostre stesse paure, dai conformismi, dai condizionamenti del passato.
Quando si deve affrontare una scelta è bene esaminarla anche sotto il profilo spirituale e a livello intuitivo, senza trascurare la componente suggerita dal cuore e dalla passione. Solo allora, con la consapevolezza di tutte queste parti di me stesso, sarò in grado di compiere la scelta.
La razionalità va benissimo, ma dentro di noi abbiamo anche altri strumenti. Usiamoli allora, e usiamoli tutti insieme”.
Cito dal suo libro: “La soluzione del problema non è mai allo stesso livello del problema”. E come si può cambiare il livello della propria visione?
“L’importanza di osservare un problema in modo distaccato è cosa nota. Un medico, un fiscalista, qualsiasi buon professionista sa che, per fare bene il proprio lavoro, deve evitare di farsi coinvolgere dalla visione del proprio cliente ed esaminare il problema che gli viene posto con distacco e lucidità. Quindi, da un altro livello. Per fare questo è necessario andare alle radici del problema, studiare le cause con lucidità. Poi, dopo avere completato questa profonda analisi, fare appello all’apporto della meditazione.
Con il vuoto della mente arrivano anche gli insight. La mente, infatti, nello stato meditativo funziona a un livello più elevato, che non è mai quello del problema. E a quel livello si apre anche alla creatività, alle soluzioni”.
Lei parla del “Fare senza un perché”, ossia fare perché è giusto, non per ottenere un risultato… Cos’è giusto? Come riconoscerlo?
“Il fare senza un perché è un concetto molto profondo, perché ci porta ad agire non solo per un ritorno personale ma perché siamo legati a un progetto più grande di noi. Lavoro per un risultato, ma non solo in funzione del risultato. Cerco di fare ogni cosa al meglio, con amore e con passione, perché in questo c’è una grande dignità, anche se non sempre i risultati sono proporzionali alle energie e agli sforzi messi in campo. Questo mi rende consapevole che, in ogni cosa, c’è una parte che non dipende solo da me.
Fin da piccoli ci inculcano la visione di noi stessi come esseri indipendenti. La verità è che invece siamo interdipendenti da tutto e da tutti e non sempre ciò che accade è a nostro favore.
È giusto, quindi, ciò che non va solo a favore di noi stessi. E ognuno di noi è in grado di sentire, nel profondo della propria coscienza, se le sue azioni vanno anche a beneficio di altri oltre che di se stesso”.
A tutti capita di sbagliare, piccole o grandi questioni che siano, il rischio è di perdere la fiducia in se stessi e nelle possibilità: perché non ci si deve demoralizzare?
“La vita è fatta di esperienza e di crescita. A tutti accade di sbagliare: i condizionamenti, i conformismi, le emozioni, il subconscio, tutte queste energie contribuiscono a farci agire in maniera inconsapevole.
Diventare consapevoli di tutto questo è come entrare in una stanza buia con una candelina per esplorarne ogni parte. È un lavoro faticoso che richiede anche un grande coraggio: non sempre è bello ciò che vediamo. Dobbiamo però imparare a esaminare ciò che ci troviamo di fronte senza il filtro dei condizionamenti, ma anche senza emettere condanne.
Allora la consapevolezza di sé educa anche alla compassione nei confronti degli altri. Vediamo le nostre debolezze, i nostri errori, e da quel momento siamo più propensi a comprendere anche gli errori altrui.
Non si tratta, quindi, di demoralizzarci perché abbiamo scoperto di avere sbagliato, ma da questa esperienza acquisire anche una più aperta comprensione degli errori di chi ci circonda. Questa consapevolezza risveglia in noi un vivo senso di compartecipazione”.
“Fiducia”: è un aspetto fondamentale del suo pensiero, ma non teme che possa essere frainteso con il concetto di fede tout court?
“Interpreto la fede come qualcosa di statico e unilaterale. La fiducia, invece, per la sua stessa esistenza è qualcosa che va alimentata giorno per giorno, momento dopo momento.
E questo vale sia per le relazioni di lavoro che per i rapporti affettivi. La fiducia che pongo nel mio amico deve essere alimentata da continui atti di attenzione e generosità nei suoi confronti, che produrranno altrettanta attenzione e generosità nei miei. È in questo nutrimento reciproco che la relazione, e la fiducia su cui si basa, si rinsalda e si rinnova, producendo reciproca gratitudine.
Ecco, in ultima analisi potremmo dire che la fiducia è una celebrazione della vita, ed è una celebrazione piena di gratitudine”.
Riporto testualmente dal suo libro: “Nessuno ci insegna ad essere”… ecco, io credo che questo sia il punto fondamentale…
“È indubbio che la nostra cultura sia basata sull’avere e sull’apparire invece che sull’essere. Bisogna arrivare a un equilibrio, e il modo più semplice per farlo è ribaltare il concetto, mettere al centro la vita.
Allora non vivremo per lavorare, ma lavoreremo per vivere. Non compreremo degli oggetti solo per poterli esibire, ma per il contributo di piacere, comodità, bellezza, utilità, che possono dare alla nostra vita. Senza attaccamento e senza identificazioni.
Se ci accadesse poi di perderli, il fatto non andrebbe a intaccare la consapevolezza di ciò che siamo”.
Una domanda di tipo tecnico: quali sono le differenze tra il tipo di meditazione da lei praticata (il metodo Suryani Meditation) e la Mindfulness?
“La vera meditazione non è una tecnica, né un metodo. La vera meditazione è la nostra intima natura”.
Tre parole per dare un consiglio a chi volesse ora avvicinarsi per la prima volta alla meditazione…
“Non sono solito dare consigli, ma a coloro che desiderano avvicinarsi alla meditazione direi di cominciare con l’esplorare a fondo quali sono le motivazioni che li stanno portando ad avvicinarsi alla meditazione. Non si tratta, infatti, di andare a cercare fuori le risposte ma di andare a cercare dentro di noi colui o colei che ci spinge a cercare.
E poi, certamente, tenersi lontani da sette e settine e da chi lo fa, in tutta evidenza, solo per interesse personale”.
Faccio un respiro profondo.
Credo che queste tematiche siano interessanti per chiunque, sia all’interno del luogo dove si lavora (e dove si trascorre la maggior parte della nostra vita) che fuori. E il motivo per cui consiglio la lettura del libro di Niccolò Branca a tutti, e non solo a chi è interessato d meditazione, è che leggendo Per fare un manager ci vuole un fiore si capisce che un altro mondo, più vero, più onesto e umano è possibile, senza perdere di vista che le aziende esistono per funzionare e produrre ricchezza, che poi è ricchezza per tutti. Senza buonismi e ottimismi infondati, con i piedi ben saldi per terra. Perché in fondo è sulla terra che crescono i fiori, no?
23 settembre 2015
[su_note note_color=”#A6ABB5″]Silvia Anna Carli, dopo molti anni nel settore bancario è ora responsabile dell’Ufficio Legale di una bella azienda e responsabile della sezione Legal Café di The Legal Journal. Scrittrice per passione e lettrice per vocazione, adora camminare, il buon cibo, il buon vino, l’arte, la fotografia, le lunghe chiacchierate tra amici e qualche altro milione di cose.[/su_note]